giovedì 20 gennaio 2022

Blood Diner (1987)


Uno pseudo seguito di Blood Feast per gli amanti dei sanguinacci.

Quanta ignoranza in questo Blood Diner. Nel senso buono del termine, se mai ce n'è stato uno. Visto al cinema tantissimi anni fa, rimasi deluso (anzi, mi pare che mi incazzai proprio) perché il film non era quello che mi aspettavo, ovvero uno slasher violento e crudele speziato con un tocco di cannibalismo, così tanto per gradire. 

Non mi accorsi ai tempi del substrato cultuale/underground portato di peso sul set da Jackie Kong e da Michael Sonye (sceneggiatore e frontman degli Haunted Garage) né tantomeno mi immaginavo chi cazzo fosse il protagonista, Carl Crew. Ovvero un pazzo fottuto. E se un interprete, come avviene durante alcune bizzarre congiunzioni di pianeti, riesce a contaminare una produzione in modo tale da lasciare un marchio quasi indelebile sul risultato,  non saprei quale altro testimone chiamare alla sbarra, se non il vecchio Carl Albert Crew classe 1961,Vostro Onore.

Al di là del gigantesco omaggio a Blood Feast e in generale al cinema brutto, sporco e imbecille di H.G. Lewis, il parto della Kong (una specialista di prodotti in bilico tra la Serie B più becera e la Serie Z vera e propria, tanto per mettere qualche etichetta) è un coacervo di demenzialità e horror da discount talmente consapevole e felice di esserlo da sublimare la sua arroganza in qualcosa di simile alla ilarità, termine orribile ma non riesco a trovarne uno migliore e non ho intenzione di utilizzare piacevolezza, perché di piacevole non c'è quasi nulla da queste parti. Anzi, forse è una delle pellicole più luride, idiote, appiccicose mai prodotte negli anni ottanta.

La storia dei fratelli Tutman, Michael (Rick Burks) e George (Crew), indottrinati dallo zio al culto della dea Sheetar, è proprio tutta qua; una serie di omicidi in apparenza violentissimi con le vittime che sembrano non sentire dolore alcuno, il tutto impregnato da un aria scanzonata che rende l'atmosfera ancora più morbosa. E se l'osso d'oro va consegnato d'ufficio ai due detective che indagano sul massacro di un gruppo di cheerleaders in topless (Roger Dauer e LaNette LaFrance, portata di peso davanti alla cinepresa per la sua somiglianza con Janet Jackson e mai più richiamata) il plauso del pubblico va tutto al vecchio Carl Crew, svitato figlio di puttana amante del wrestling e delle Fiji Mermaids nonché fondatore del California Institute of Abnomalarts. Guardatelo mentre cucina o investe bikers sprovveduti sempre con quel ghigno da malato di mente in gita di piacere. Grandissimo finale con raggi laser che scoperchiano crani e uno dei baracchini di cibo d'asporto più schifosi che la memoria cinefila sia in grado di ricordare. DVD Lionsgate del 2011 e Blu-ray sempre edito dalla Lionsgate per la collana Vestron Video Collector's Series.

Originariamente pubblicato su "L'Osceno Desiderio" il 15/11/2015.

Etichette: , , ,

sabato 15 gennaio 2022

Super Super Bestia (1980)


Una delle prime recensioni che scrissi per "Malastrana VHS" del grande Andrea Lanza. Un incredibile hard di Pallardy con Brigitte Lahaie. Azionate il parental control.

Magie della distribuzione italica. Che il porno Prends-Moi de Force (1978) targato Jean-Marie Pallardy sia potuto uscire sul suolo italico con l'irresistibile titolo Superbestia per poi essere nuovamente ridistribuito con l'ancor più irresistibile Super Super Bestia nel 1980 non è pratica così inconsueta. Anzi. Magie della BIG Cinematografica, la casa di distribuzione/produzione creata dal catanese Luigi Grosso, uomo di cinema con un piede e l'altro pure nella marea montante di hard pronta ad inondare i cinema italiani.

Passiamo al film. Super Super Bestia è la versione rimaneggiata del film di Pallardy Superbestia, regolarmente passato in censura e distribuito nei cinema nel 1980. La pellicola è incentrata su uno stupratore seriale incappucciato (interpretato dallo stesso Pallardy nelle sequenze non hardistiche) con soprabito e doppietta che miete vittime in un paesino di campagna. Bene. Il vecchio Luigi Grosso, che ha acquistato il film con la BIG, visto il limitato contratto di sfruttamento dello stesso, decide di girare delle sequenze ex-novo da inserire nel metraggio per ottenere così un altro film da immettere sul mercato con il titolo, geniale, di Super Super Bestia, tanto per non farsi mancare niente. L'opera che esce fuori da questo "intervento" mantiene la maggior parte delle sequenze hard girate da Pallardy, ma elimina dal metraggio le scene con Gordon Mitchell e Mike Monty (?) privandolo di una certa aurea cult da un lato e dall'altro rendendolo ancora più demenziale grazie all'inserimento di una serie di scene con protagonisti un maresciallo e un brigadiere che indagano sui crimini. Sono dei classici intermezzi comici tra un cimento hard e l'altro, operazione consueta nella neonata pornografia italica (vedi Porno Sogni Superbagnati diretto in realtà da Bruno Gaburro, dove in questo ruolo troviamo nientemeno che Enzo Garinei!!!) girati però con una cialtroneria tale da rimanere basiti. Le scene sono tutte girate nella stessa, poverissima stanza (la quale dovrebbe rappresentare il commissariato) e l'improbabile maresciallo (Agostino Crisafulli) viene continuamente disturbato dagli interventi del brigadiere semi analfabeta che parla con accento alla Franco Franchi; ad un certo punto il maresciallo, che è un poeta a tempo perso, si ritira in un prato declamando versi, per essere raggiunto dal sottoposto che lo informa del fatto che "Concettina Sucamillo" è stata appena aggredita. Vedendolo arrivare da lontano il povero poeta non può che accoglierlo con cultissimo "Porco boia, porco boia, ma che cazzo vuoi?" e via di questo tenore. 

Il girato di Pallardy (impagabile exploiter con le mani in pasta in ogni dove, regista di almeno 23 titoli ufficiali da Clitò petalo del Sesso a I Grossi Bestioni) è per contro un ruspante e grezzo hard settantesco con buone sequenze pornografiche girate tutte all'aperto, in prati e fienili, che può contare sulla presenza scenica della splendida Brigitte Lahaie (mi dispiace ma da queste parti non ha assolutamente bisogno di presentazioni, un titolo a caso Les Petites écolières di Claude Mulot), attiva in un gran lesbo nei boschi e poi spettatrice delle successiva sequenza hard. La violenza che si potrebbe credere disturbante per via della trama non raggiunge mai livelli di guardia, anzi, l'unica scena di costrizione e percosse è strategicamente piazzata all'inizio, con il violentatore che colpisce a schiaffoni la vittima e la costringe ad un rapporto orale imprigionandole le braccia con le ginocchia, per poi proseguire con un cimento hardistico senza alcun sadismo e violenza. L'ultima parte del girato di Grosso (produttore pure di Cocco di Mamma di Rino De Silvestro, per non parlare di tutti gli hard distribuiti, Una Donna Particolare/Une Femme Spéciale con Karin Schubert, sempre di Pallardy, Erotic Sex Orgasm, I Porno Giochi, Marina Vedova Viziosa e via discorrendo) prevede invece la partecipazione della famosa Pauline Teuscher, hardista olandese molto famosa e nota agli appassionati del genere, che interpreta il ruolo di una giornalista (in seguito si rivelerà per una poliziotta) chiamata dal maresciallo per irretire e smascherare l'insospettabile stupratore naturalmente utilizzando l'arma del sesso, nell'unica scena al coperto dell'intero film (invero molto più cupa e cimiteriale rispetto agli altri cimenti hardistici). 

L'unica versione uscita in Vhs in Italia è quella a cura della U.Mida Films, Oscar del Porno n°. 366 in big box, collana sicuramente conosciuta dai collezionisti (ricordate pure le copertine con la maitresse stilizzata in viola e nero) che presenta una qualità video non proprio eccellente, data la presenza di graffi, spuntinature, fotogrammi mancanti e una fotografia pericolosamente tendente al verdastro (la qualità si abbassa ulteriormente negli inserti di Grosso) caratteristiche che comunque costituiscono gran parte del fascino di questi oggetti del passato, mentre l'audio è pulito e potente, tanto che nelle scene in esterni si riescono a percepire i rumori di fondo e pure il cinguettio degli uccelli (ops!) sotto la colonna sonora clamorosamente di repertorio. Sentire per credere.

Regia: Jean-Marie Pallardy versione originale tit. Prends-moi de Force.

Sceneggiatura: Jean-Marie Pallardy.

Anno: 1978/1980

Interpreti: Jean-Marie Pallardy, Brigitte Lahaie, Barbara Moose, Jacques Insermini, Jean Lusi, Agostino Crisafulli, Pauline Teutscher.

VHS: U.Mida Films, vietato ai minori di 18 anni.

Originariamente pubblicato sy "Malastrana VHS" il 17/09/2012.

Etichette: , ,

giovedì 6 gennaio 2022

Jason Goes to Hell: The Final Friday (1993)


“L’ultimo Venerdì” per modo di dire. Nei primi anni novanta Sean S. Cunningham tentò di instillare nuova linfa in una serie che non se la passava bene dopo l’insuccesso dell’ottava capitolo di Rob Hedden.

Si può dire di tutto sul parto di Marcus, che sia brutto, inutile, cialtrone, assurdo, ma non si può negare che abbia tentato di percorrere strade alternative. Certo, non si tratta di una rivoluzione sistematica, tipo levare di mezzo Jason come si levò di mezzo Michael Myers in Halloween III-The Season of The Witch, tuttavia il buon Adam Marcus, qualche piccolo cambiamento l’ha pure portato.

E’ un film molto, molto fumettistico Jason va all’inferno, non a caso conobbe una vita extra-cinematografica con l'omonima graphic novel edita dalla Topps Comic e scritta da Andy Angels. L'incipit è classico, propinandoci uno strip-tease da manuale, con fanciulla sola in quel di Crystal Lake (e dove sennò?) che improvvisamente ma non troppo viene insidiata da Mr. Voorhees con machete alla mano; già tutto visto e rivisto, si, se non per l’irruzione subitanea di una Task Force dell’FBI decisa a uccidere definitivamente l’assassino mascherato. Un fuoco incrociato proveniente da decine di mitragliatori distrugge il serial killer/morto vivente, anzi, lo riduce quasi in poltiglia. Rimangono pochi pezzi di quella che fu una straordinaria macchina omicida. Ma, attenzione, il Male alberga nel cuore nero e pulsante di Jason. E il Male trova sempre un nuovo corpo/involucro con il quale seminare il Verbo.

Detto così, potrebbe non significare niente. Espedienti di questo tipo sono già stati usati in tempi non sospetti, per rimanere in ambito eighties, basti pensare a L’Alieno di Jack Sholder o a Sotto Shock di Wes Craven; tuttavia, in un franchise fortemente legato alla figura iconica di Jason, il tentativo di “mascherare” il personaggio principale, non di cancellarlo dallo schermo si badi bene, risulta se non altro un tentativo apprezzabile di reinventare una serie costruita su sceneggiature sempre uguali. Uguali perché il successo della serie si costruisce su uno schema collaudatissimo che prevede giovani in fregola uccisi senza pietà da un feroce “censore” di comportamenti osceni. I ragazzi da massacrare diventano, quindi, in Jason Goes To Hell-The Final Friday  un contorno e non la prima portata del banchetto, visto che il plot è incentrato sulla ricerca di altri corpi da abitare e , in particolare, di un corpo, quello della nipote, in cui rinascere.

Un film ibrido, slegato, che frulla slasher e action e ritrova la suo dimensione prettamente horror nel finale, con  Jason (il solito, grandissimo Kane Hodder)  che rinasce dalla ceneri e si trasforma in personaggio/demonio da fumetto con fuoco infernale a fare da scenografia. La dimensione è quella fumettistica, che spiana definitivamente la strada al cross-over con Freddy Krueger non disdegnando riferimenti diretti alla saga Evil Dead con il Necronomicon in bella vista. C’è chi lo odia, chi lo ignora, chi lo apprezza, questione di gusti, tuttavia Jason Va all’Inferno possiede il fascino di quelle produzioni scalcinate fuori tempo massimo che trasudano di passione per la saga. Non tutto funziona nella regia di Marcus, ma un giro in questo tunnel dell’orrore è sempre consigliato. Recuperate la versione uncut, che dura tre minuti in più rispetto a quella uscita nelle sale.

Originariamente pubblicato su "Horror.it" il giorno 05/01/2012.

Etichette: , , , ,

martedì 4 gennaio 2022

Bad Dreams (1988)


Brutti sogni per la splendida Jennifer Rubin, in questo ottimo clone della serie "A Nightmare on Elm Street".

Sulla scia dello strepitoso successo di Nightmare 3- I Guerrieri del Sogno (1987) di Charles “Chuck” Russell, usciva nel lontano 1988 questo piccolo film prodotto da Gale Ann Hurd,  (già produttrice affermata di Terminator e Aliens - Scontro Finale), affidata all’esordiente Andrew Fleming, anche sceneggiatore insieme a Steven E. De Souza.

Si parte con il suicidio di massa di una setta di hippies orchestrata dal santone Harris (Richard Lynch) figura fortemente ispirata sia a Charles Manson che al Rev. Jim Jones, famigerato artefice del “massacro della Guyana”. Il leader della setta battezza gli adepti con un mestolo di benzina al posto della tradizionale acqua santa, per poi dare fuoco a tutti quanti, la giovane Cynthia compresa, che, miracolosamente ma non troppo, secondo le leggi hollywoodiane naturalmente, sopravvive per cadere in un coma profondo che durerà tredici anni. Una volta svegliatasi, la giovane (interpretata dalla bellissima Jennifer Rubin), si troverà a fare i conti con una realtà che non riesce a comprendere e in cui non si riconosce, terrorizzata dalle continue visioni del vecchio Harris, orribilmente sfigurato, che sembra avere la capacità di spingere al suicidio tutti i pazienti vicini a Cynthia. Solo il Dr. Karmen (nientemeno che il Bruce Abbot di Re-Animator) tenterà di trovare una spiegazione ai suicidi/omicidi.

Impossibile non pensare al plot di Nightmare 3, di cui fu scelta una delle co-protagoniste (la Rubin, la guerriera punk del film di Russell), di cui la pellicola di Fleming ricalca anche l’ambientazione ospedaliera con il gruppo di pazienti del reparto psichiatrico decimati uno ad uno da una misteriosa presenza che si materializza  come un essere ustionato in grado di manipolare le menti dei protagonisti.

Niente per cui gridare allo scandalo, poiché il film di Fleming ha una sua dignità e una confezione di tutto rispetto che lo rendono una tappa obbligata per i cultori del cinema horror anni ottanta che inevitabilmente guardava al successo della saga cinematografica di maggior richiamo durante quel periodo storico. Difficile fare i conti con un personaggio multimediale come Freddy Krueger senza cadere nel ridicolo o nella scopiazzatura becera, tuttavia questo Bad Dreams (in Italia Vivere nel Terrore) risulta ancora godibile grazie  al villain della situazione, un grande Richard Lynch, attore che gli appassionati non possono ignorare, sempre a suo agio in ruoli di volta in volta truci e/o sgradevoli, qui particolarmente ispirato e, soprattutto, non presente in scena ogni due minuti, scelta registica che permette di mantenere una certa ambiguità per tutta la pellicola, lasciando dubitare lo spettatore delle facoltà mentali della protagonista.

Se poi aggiungiamo qualche sequenza splatter piuttosto riuscita, vedi la pioggia di sangue e frattaglie sul tecnico riparatore o il giovane paziente schizofrenico che si infilza la mano, allora la pietanza diventa ancora più speziata, anche in virtù di un ottimo cast che comprende  Dean Cameron (il “Motosega” di Summer School-Una Vacanza da Ripetenti di Carl Reiner) e un attore navigato come Harris Yulin, psichiatra se possibile più svitato dei pazienti stessi.

Consigliato a tutti gli amanti del cinema anni ottanta, con tutti i difetti e le ingenuità che inevitabilmente questi film si portano dietro, Vivere nel Terrore è un piccolo cult da riscoprire in cui i mai sopiti fantasmi degli anni settanta tornano a perseguitare i giovani degli anni ottanta, forse troppo poco spirituali e edonisti per meritare una vita senza sacrifici. Ma tranquillizzatevi tutti, c’è il vecchio santone Harris, plagiatore di anime candide, a mostrare loro la via. Nel finale originariamente concepito, girato e montato ma scartato, Cynthia ritorna con il Dr. Karmen a Unity Fields, la casa del massacro, per affrontare un’ultima volta la “famiglia” del mefistofelico Harris che “ucciderà” definitivamente con un pugnale, raccolto nell’ultimissima scena da una mano scheletrica palesemente manovrata con un bastone. Molto meglio quello utilizzato, che si chiude con Sweet Child o’ Mine dei Guns N’ Roses.

Originariamente pubblicato su "Horror.it" il 26/10/2011. 

Etichette: , , ,

sabato 1 gennaio 2022

Ruby (1977)


Horror dimenticato del grande Curtis Harrington.

Ruby di Curtis Harrington potrebbe facilmente essere scambiato per una sorta di Carrie al Drive-In, niente di più sbagliato, visto che si tratta di L'Esorcista al Drive-In. Una volta chiarita questa importantissima questione, è bene precisare che la pellicola non gode di particolare considerazione da parte di addetti ai lavori e appassionati, ingiustamente per chi scrive, visto che il parto di Harrington, pur non essendo un capolavoro imprescindibile, si ritaglia una sua piccola (molto piccola) nicchia in ambito exploitation per via di una certa malcelata ambizione produttiva e, soprattutto, per le interpretazioni sopra le righe di Piper Laurie e della posseduta Janit Baldwin.

Se vi pare poco, guardatevi gli occhioni da cerbiatta di Leslie (la Baldwin) mentre si dedica con passione alla ginnastica artistica grazie all'interesse del defunto padre, il gangster Nicky Rocco (Sal Vecchio) ucciso dai suoi compari durante un romantico interludio con la cantante in dolce attesa Ruby Claire (Piper Laurie) e tornato per reclamare tremenda vendetta contro gli esecutori materiali e i presunti mandanti dell'agguato, utilizzando il corpo della figlia (nata la notte dell'omicidio e rimasta muta a causa del parto prematuro) come strumento di morte. Più o meno.

In questo caso, il valore aggiunto è l'ambientazione all'interno del drive-in gestito da Ruby, un vero e proprio microcosmo in cui si consumano i bizzarri omicidi (gli scagnozzi colpevoli del massacro lavorano tutti al cinema!) e che Harrington utilizza per lanciare una non proprio velata polemica nei confronti del cinema di "consumo" (sullo schermo scorrono le chilometriche gambe di Allison Hayes in Attack of the 50 Foot Woman, 1958) tramite il personaggio di Ruby, ex artista depressa e alcolizzata rimasta imprigionata negli anni trenta.

Questo dualismo tra cinema classico e horror esorcistico (o di possessione) è la ragione principale dello scorno critico riservato a Ruby, per molti un film spazzatura, per altri un oggetto non identificato dei tardi settanta in bilico tra autorialità e picchi di delirio assoluto degni del cinema marginale più sgangherato. Manco a dirlo, questa è la ragione principale per cui chi scrive apprezza il parto di Harrington, grande e ormai quasi dimenticato regista di "cinema del terrore" relegato nei gironi infimi del genere di consumo (un peccato imperdonabile per i critici da salotto) per via de Il Cane Infernale (Devil Dog: The Hound of Hell, 1978), solido Tv Movie, assolutamente consigliato agli appassionati di horror, che tuttavia non dovrebbe essere considerato quale testamento registico del cineasta losangelino, capace di offrire al pubblico capolavori cupi e disperati come The Killing Kind (1973) con John Savage e Cindy Williams.

Dopo questo cappellone (nel senso introduttivo) arriviamo finalmente alla ciccia, ovvero le manomissioni operate da Steve Krantz (vedere l'affaire Fritz The Cat) cominciando dal finale posticcio appiccicato alla pellicola per doppiare il finalone depalmiano di Carrie (1976) e la versione realizzata per la Tv con materiale aggiuntivo realizzato (così come l'epilogo) da Stephanie Rothman in persona (secondo la leggenda), che eliminava tutte le scene violente per dare più spazio a personaggi secondari come Lila June  e lo sceriffo, senza contare un subplot "investigativo" dedicato al Dr. Keller (Roger Davis), il medico incaricato di risolvere il "caso" della presunta possessione di Leslie. 

Come da copione, Harrington odiò questa versione non autorizzata, tanto da imporre lo pseudo Alan/Allen Smithee, amareggiato dalla sostituzione del finale originale con un "jumpscare" da quattro soldi, che rovinò il tono crepuscolare della storia. A dirla tutta, il finale alternativo non distrugge completamente la visione di Ruby, aggiungendo una coda di pura exploitation che, pur rozza e girata con un'attrice che chiaramente non è Piper Laurie, sigilla una pellicola comunque concepita per lo sfruttamento commerciale e destinata per forza di cose a generare scomodi paragoni con i capolavori ai quali si "ispira", tutto vero, anche se il nucleo del cinema di Curtis Harrington, ovvero individui con gravi disturbi psichiatrici rinchiusi nel loro piccolo "giardino delle torture", rimane forte e pulsante come in How Awful About Allan (1970), Whoever Slew Auntie Roo? (1971) e What's the Matter with Helen? (1970).

Il recente combo Dvd/Blu-ray della VCI, Region A, 1.85:1, non fa miracoli rispetto al Dvd (sempre VCI) del 2001, ma offre una gradita rimpatriata con i bei faccioni di Stuart Whitman, Eddy Donno, Jack Perkins e il vecchio Fred Kohler Jr., nonché una bella mole di extra, tra cui diverse interviste con Harrington, contributi critici di David Del Valle e Nathaniel Bell, più il commento audio (già nel Dvd) del regista con Piper Laurie, nonostante qualche pecca nel reparto tecnico. Penso che possa bastare.

Originariamente pubblicato su "L'Osceno Desiderio" il giorno 08/12/2018.

Etichette: , ,